CORONA VIRUS
Parole in quarantena
di Flavio Zanella
FRATELLI DI VIRUS
Fratelli di virus, l’Italia è pesta
e il virus corona fa scoppiar la testa.
Ci toglie il fiato, ci chiude i polmoni,
ma noi continuiamo a fare i coglioni.
Da secoli siamo calpesti e derisi,
perché non siam popol, perché siam divisi.
Siamo ridotti a un branco di furbi
e, violar la legge, par che non ci turbi.
Giunge accorato a tutti l’appello:
“restate a casa, o sarà macello”.
Torna risposta becera e sciocca:
“il morbo cinese a noi non tocca”.
Il vibrione non fa differenza
e l’ha capito per prima la scienza.
Ora il contagio inguaia parecchi.
Senza saluto, muoiono i vecchi.
Buio e lontano è l’orizzonte.
Rughe e sudore imperlan la fronte.
La pestilenza sarà mai finita?
Ce lo dirà solamente la vita.
QUARANTENA
‘Sto virus proprio nol se ghe voleva.
L’à mandà in vaca tuti i me progeti.
Ancora pezo, nar no la podeva.
El gà fregà sia i sior che i poareti.
A gh’era tante robe da vedere
in giro per i cinque continenti.
Enveze i gà serado le frontiere.
L’è come ‘na legnada en mez ai denti.
I fa la legge e ti no i te consulta.
De quel che a ti te pias, nessun ghe importa.
Te ris’ci de dover pagar ‘na multa
se te meti el nas for dala porta.
Altro che nar en giro per i monti
o farse dele tonde in bicicleta.
A nossa casa, besogn stare sconti
e cogn desmentegar cos l’è la freta.
Ades la vita la va avanti adagio.
De correre, nissun che gà più voia.
Stem ceti, per non se ciapar contagio.
Che pegola saria, ciapar la doia.
Se ‘sti ani te tocava starnudar,
“salute” i te diseva e bonanote.
Adesso te tel poi desmentegar,
te ris’ci de ciapar en sac de botte.
‘Sta quarantena ne gà castigadi.
Parem maladi senza gaver mal.
Giremo tuti quanti mascheradi
che par che sia tornado carveval.
ADDIO TEROLDEGO
L’editto governal fu chiaro e netto:
“rivolto è appello a tutte le persone,
ché stiano rintanate alla magione
ed escan solo per bisogno stretto.
Bighellonar è azione inconsulta.
Che niuno più sen vada per contrade.
Il riottoso colto nelle strade,
sanzionato verrà, con una multa.
Concedesi un quarto d’ora d’aria
a chi s’avval di carta autorizzante.
Chiuderà l’occhio il ligio sorvegliante,
solo se l’esigenza è primaria.
S’ammette sol l’acquisto di vivande
e all’apotecio per le medicine.
Finché il contagio non vedrà la fine,
lo sacrifico imposto sarà grande”
Accadde che in un paesin montano
tale Brusamolin fu contestato
poiché tre fiasche aveva comperato
di teroldego rosso rotaliano.
“Non m’infligga sì vile penitenza”
supplicò l’incallito bevitore.
“Giuramento io fo, sul mio onore.
Essenziale esso è, per mia esistenza.
Non mandi alle ortiche il mio salario.
Se la sanzion è d’euro quattrocento,
povero diverrò in un momento
e a carico sarò poi, dell’erario”.
Non ascoltò ragion la vigilanza
e, dopo aver redatto lo verbale,
apostrofollo con fare marziale
“la legge non ammette l’ignoranza”.
Brusamolin s’andò col cor distrutto.
Confiscate gli furono le fiasche
e gli euri che teneva nelle tasche.
Or gira tutto in nero, perché in lutto.
DISTANZIAMENTO RAP
La vita andò serena, come nella bambagia,
poi venne per disdetta, il virus che contagia.
La società si perse, finì nello sgomento
e l’unico rimedio, fu il distanziamento.
Il morbo maledetto, che inquinava l’aria,
fece far del distacco, necessità primaria.
Quando una persona, usciva dalla stanza,
teneva dal suo pari, un metro di distanza.
Dentro l’ambiente chiuso, illuminato o tetro,
il minimo distacco, era il doppio metro.
L’atletico sportivo, allievo o dilettante,
dai tre ai quattro metri, doveva star distante.
Forse era sorto il dubbio al celebre scienziato
che avesse il vile virus, da geometra studiato.
Che fosse in campagna, oppure in città
di fatto fu vietata ogni mobilità
ed ogni cittadino, malato oppure immune,
restar dovea recluso dentro il suo comune.
La vita si fermò. Fu mesta quarantena.
Regnava in famiglia, solo dolore e pena.
Per legge fu vietato l’incontro personale.
Il figlio senza madre viveva molto male.
Fu proprio in quel tempo che Tullio da Palù,
decise che era stufo: “non ce la faccio più.
Necessita che incontri la mia genitrice.
Chi vara certe norme, non sa quello che dice.
Se non posso incontrarla, in me la vita langue.
Forte sento il richiamo del familiare sangue.
Lascio che il pecorone, segua fidente il gregge.
Mi voglio ribellare, senza violar la legge.
Avrò la madre mia, domani a me vicino.
Lei nel Veneto suo ed io, nel mio Trentino”.
L’incontro avvenne all’alba nei pressi di Borghetto
dove Maria Teresa, confine aveva eretto
e dove, ancora oggi c’è il cambio di regione,
come viene indicato da cippo e tabellone.
Tullio si mise a un metro dal palo indicatore
e attese con pazienza l’amato genitore.
Giunse la madre sua dal veneto versante
ed anche lei, un metro, dal palo fu distante.
Mancarono gli abbracci e pure le carezze.
Gli sguardi incrociati, promisero certezze.
Quando la pandemia, sarà un dì finita,
potremo ritornare alla normale vita.
Non ci saran barriere, non ci saran confini
e allora, finalmente, starem sempre vicini.
SOLITUDINE
La maschera azzurra mi copre il viso
e intanto si spegne, il mio sorriso.
Non esco di casa. Non trovo il coraggio.
Ormai sono vecchio e temo il contagio.
Mi basta inspirare una goccia di fiato.
Mi frego il domani e sono spacciato.
Ho perso gli amici. Tagliato, ho i ponti.
Fo parte del gruppo dei muti bisonti
che tirano avanti, provando gran pena,
messo in disparte. In quarantena.
La vita sociale, era molto importante.
Or sembra soltanto una voce distante.
Tutto si chiude è c’è il coprifuoco.
Bellezza e cultura son già fuori gioco.
La televisione e tutti i giornali,
da giorni, da mesi, son sempre uguali.
Di tutte le genti, raccontan la sorte.
Passata è l’estate. Arriva l’inverno.
Il morbo imperversa e pare eterno.
Attendo con ansia un nuovo vaccino,
che possa donarmi un nuovo mattino.
Recluso mi sento, in questa mia stanza.
A far da compagna ho sol la speranza.
Speranza che aiuta a battere il cuore
e che mi prospetta un mondo migliore.
Ove non derivi il bene dal censo
e dove la vita ritrovi il suo senso.
NORMALITA’
La luce in fondo, al tunnel s’è accesa
ed io, come tanti, rimango in attesa
di fare ritorno alla normalità.
Sarà come prima? Vedremo, chissà.
Faremo ritorno ai vecchi costumi?
Dal virus cinese saremo immuni,
oppure il contagio non avrà mai fine?
Vivremo bardati con le mascherine?
Dovrem mantener la distanza sociale?
Con sol quattro gatti, riempirem le sale?
Dovremo scordare il bagno di folla,
oppure vivremo un tira e molla?
Potremo raggiungere insiem nuove mete
o farlo potremo, navigando in rete?
Avremo politici in grado d’agire
oppure dovrem continuare a sentire
chi ha sempre bisogno d’avere un nemico
per esser protetto da foglia di fico.
Chi, in piena tempesta nel mese d’aprile,
non seppe far meglio, che il pesce in barile.
Sono arcistufo di udire in eterno
che il mal si risolve, cacciando il governo.
Rimarco con forza, se occorrenza ci fosse
“del senno di poi, son piene le fosse”.
Rivolgo il pensiero a una storia africana.
Lo stanco leone che nella savana
sen stava nascosto in luogo appartato
da un branco di iene fu assaltato.
Il vecchio felino perì con gran pena.
La magra vittoria arrise alla iena.
Nulla cambiò della situazione:
fu vile la iena e re fu il leone.
Una sola morale c’ispira la storia:
avremo futuro, se avremo memoria.
Se il vivere nostro sarà sol virtuale,
per come la penso, la vedo gran male.
Avremo una vita da mezzi reclusi
o i meno portati, saranno esclusi.
Sarà dilatato, il sociale divario.
Non più perequato, sarà il salario.
Io spero che il mondo, non cada sì in basso.
Che il cuore dell’uomo non muti in sasso.
Io voglio sperare in tempi futuri,
con albe migliori. Con giorni sicuri.
È mio desiderio che fede e speranza
sian corroborate dalla fratellanza.
Dove la frase “siam tutti fratelli”
venga sfrondata da inutili orpelli.
Saprà il domani, il dolore lenire.
Or l’ora è giunta. Dobbiam ripartire.
Autore: Flavio Zanella
Data: 19 Novembre 2020